Cambiamento climatico, lo studio sugli effetti in Italia
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Uno studio italiano ha esaminato venti indicatori e trenta casi pilota, scelti da un gruppo di lavoro composto da esperti provenienti da Agenzia per la protezione dell’ambiente, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), e altri istituti ed enti di ricerca, mettendo sotto esame 13 settori vulnerabili già individuati nell’ambito della Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici e dalla successiva bozza del Piano nazionale, ossia: risorse idriche, patrimonio culturale, agricoltura e produzione alimentare, energia, pesca, salute, foreste, ecosistemi marini e terrestri, suolo e territorio, ambiente alpino e appennini e zone costiere. Arrivando così alla terribile conclusione che in Italia, “si delineano criticità sia per le risorse naturali che per i settori socio-economici“.

L’ambiente alpino presenta evidenti tendenze alla deglaciazione. Per l’effetto combinato delle elevate temperature estive e della riduzione delle precipitazioni invernali, si registra così una perdita sostanziale e costante di massa dei ghiacciai. In particolare emerge come le perdite cumulate dal 1995 al 2019 vadano da un minimo di oltre 19 metri di acqua equivalente (cioè lo spessore dello strato di acqua ottenuto dalla fusione del ghiaccio) per il ghiacciaio del Basòdino, fra Piemonte e Svizzera, ad un massimo di quasi 41 metri per il ghiacciaio di Caresèr, in Trentino Alto Adige, per una perdita di massa media annua di oltre un metro di acqua equivalente. Il bilancio cumulato dei ghiacciai analizzati nei casi pilota regionali di Valle d’Aosta e Lombardia mostra perdite che ammontano a oltre 15 metri di acqua equivalente per il ghiacciaio del Timorion (2001- 2019) e a quasi 36 metri per il ghiacciaio di Alpe Sud (1998-2019). A questi fenomeni si va poi ad aggiungere una chiara tendenza al degrado del permafrost (lo strato di terreno perennemente ghiacciato): l’analisi di due siti pilota (Valle d’Aosta e Piemonte) evidenzia poi un aumento medio di temperatura di 0,15 °C ogni dieci anni con un’elevata probabilità di degradazione completa entro il 2040 nel sito piemontese. “Si ha permafrost solo in presenza di temperature negative al di sotto dello strato attivo del suolo per almeno due anni consecutivi – spiegano, infatti, gli esperti -, una condizione che rischia di scomparire al 2040”.

La temperatura superficiale con incrementi in tutti i mari italiani con alterazioni marcate nel Mar Ligure, Adriatico e Ionio Settentrionale e valori attenuati nel canale di Sicilia. In prossimità della costa pugliese e lucana si riscontrano valori maggiori, che superano anche la variazione di 0,08 °C all’anno. All’aumento della temperatura del mare corrisponde anche una significativa variazione della distribuzione delle specie, con un aumento della pesca nei mari italiani di quelle che prediligono temperature elevate (specie di piccole dimensioni come acciuga, sardinella, triglia, mazzancolle e gambero rosa), che si stanno diffondendo sempre più a nord. Penalizzate, invece, le specie di grandi dimensioni e di grande interesse commerciale, come ad esempio il merluzzo, il cantaro, il branzino, lo sgombro e la palamita.

Questo fenomeno è fotografato dall’indicatore “temperatura media delle catture”, calcolata anno per anno in base alle catture commerciali, cresciuta di oltre un grado negli ultimi 30 anni (un fenomeno più marcato nei mari del sud, nel Tirreno e mar Ligure rispetto che all’Adriatico).

Photo credit bluplanetheart